"Don't look up": la metafora dello struzzo

Focus

“Ignorance is bliss”: una fortunata espressione coniata dal poeta inglese Thomas Gray (1716-1771) nella sua “Ode on a Distant Prospect of Eton College”, che ha però ripreso un concetto ben più antico, risalente addirittura al I secolo a.C. e appartenente a Publilio Siro: “in nil sapiendo vita iucundissima est”, ossia “la vita è piacevolissima per chi è del tutto ignorante”.

Forse è (anche) questa l’arma che, con amara e tagliente ironia, viene brandita dall’autore e regista del film “Don’t look up” (2021): a ricordarci che il confine tra grottesco e realtà, tra assurdo e fattuale, può essere incredibilmente sfumato, persino su questioni come la sopravvivenza della specie umana sul pianeta Terra. E che nemmeno la più scientifica delle dimostrazioni, il più esatto dei calcoli può competere, talvolta, con la potenza dell’indifferenza, sorella della paura.

L’abitudine di relegare la crisi climatica agli ultimi posti nella scala delle priorità della vita quotidiana, così come nelle agende politiche delle principali potenze mondiali, continua ad essere radicata nelle comunità umane, nonostante le premure e i ripetuti appelli della comunità scientifica. È un’inerzia che s’interrompe a darle i suoi 15 trascurabili minuti di notorietà solo ogni qualvolta si verifica l’ennesimo disastro ambientale, si estingue per sempre una specie vivente, si fa un ulteriore passo verso la distruzione dei nostri ecosistemi oltre il punto di non ritorno.

Eppure, non è sempre stato così. Ci sono stati dei momenti in cui scienza e politica sono andati di pari passo, impegnandosi di comune accordo, cooperando nell’operare dei cambiamenti che ponessero rimedio ad un danno potenzialmente fatale: ad esempio, la chiusura del famigerato “buco dell’ozono”, scoperto nel 1985 e causato dall’emissione umana di sostanze chimiche chiamate clorofluorocarburi (CFCs) e di gas serra, risultanti dall’aerosolizzazione degli spray e dei liquidi di raffreddamento dei frigoriferi. Esse consumano lo strato di ozono o ozonosfera, un gas particolarmente protettivo in quanto trattiene le radiazioni solari a bassa lunghezza d’onda (o alta frequenza), nocive per la vita. Nel 1987 circa 200 Paesi firmarono il Protocollo di Montréal, che prevedeva il divieto di produzione ed emissione dei CFCs; come risultato, il buco nell’ozono poté essere dichiarato riparato [1]. Da allora, lo strato di ozono viene monitorato con attenzione durante ogni primavera australe, all’altezza dei poli, a testimonianza ulteriore del fatto che le strategie messe in atto ai tempi e gli sforzi coordinati dell’expertise scientifica hanno innescato anche un’importante memoria storica: uno strumento, quest’ultimo, dalle grandi potenzialità, che potrebbe contribuire a salvarci dai molteplici “asteroidi” – per riprendere una metafora dal regista McKay – che stanno per schiantarsi sulla Terra.

Alcuni più velocemente di altri.

In ultima analisi, si ritorna al trito e ritrito quesito principale: “cosa può fare ognuno di noi per contribuire all’inversione di questa tendenza negativa?” Forse, però, sarebbe più opportuno fare un passo indietro: chiedersi se e quanto ne sappiamo di danni ambientali e sopravvivenza di ecosistemi, di equilibri delicatissimi e fondamentali che ci consentono da migliaia di anni di prosperare assieme alle altre specie del Pianeta. Quanto effettivamente percepiamo l’entità del pericolo che incombe, finché non la proviamo sulla nostra pelle? E da ciò, di conseguenza, dovremo forse arrivare all’irreparabile per poter davvero aprire gli occhi?

Non è affatto semplice trovare modi incisivi per spiegare sistemi così complessi, men che meno tradurre un’enorme quantità di dati in concetti che siano non solo accessibili a chiunque, ma anche d’ispirazione. Fare leva sulla disperazione che genera la consapevolezza della fine può funzionare? I curiosi della risposta che non hanno visto “Don’t look up” potrebbero provare a cercarla lì. Intanto, da tempo è noto che esistono molti modi per apportare, nel proprio piccolo, dei cambiamenti nelle proprie abitudini di vita; e che questi si traducano in benefici concreti e tangibili per l’ambiente e gli ecosistemi della Terra. Dal preferire trasporti pubblici, biciclette e passeggiate all’uso dell’automobile quando è praticabile, ad una scelta più consapevole nell’acquisto di vestiti, saponi, prodotti per la casa e via dicendo: sul web, ed in particolare sui social, sono tantissime le pagine e i divulgatori che propongono soluzioni alla portata di tutti [2].

Certo, “ecosostenibile” non è sinonimo di “comodo”: per nostra natura non siamo granché entusiasti di rompere le abitudini. Ma siamo anche una specie estremamente capace di adattarsi, senza rassegnarsi, e disposti a "guardare su".

Riferimenti bibliografici:

1. https://public.wmo.int/en/media/news/ozone-layer-recovery-environmental-success-story

2. http://www.alternativasostenibile.it/

Aurora Heidar Alizadeh - Università Cattolica del Sacro Cuore"